sabato 29 dicembre 2012

“Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismäki: una favola contemporanea fondata sulla speranza e la solidarietà.


Accolto con entusiasmo al festival di Cannes dello scorso anno, “Miracolo a Le Havre” è il secondo film girato in lingua francese da Aki Kaurismäki, dopo “Vita da Bohème” del 1992.
In questa pellicola il regista finlandese riporta sullo schermo il personaggio di Marcel Marx: l’ex scrittore bohémien interpretato dal bravissimo André Wilms.
Marcel Marx (André Wilms) è un ex scrittore bohémien trasferitosi da Parigi a Le Havre, nel nord della Francia.
Trascorre le sue giornate tra le strade di quella città, lungo le quali esercita la professione di lustrascarpe, la casa in cui abita con la moglie Arletty (Kati Outinen) e la sua cagnolina Laika, e il bar del quartiere.
Un giorno Marcel incontra per caso Idrissa (Blondin Miguel), un bambino africano arrivato clandestinamente in Francia insieme ad altri connazionali, e intenzionato a raggiungere la madre a Londra; poco dopo apprende la notizia della malattia della moglie.
Grazie all’aiuto di alcuni dei suoi vicini e soprattutto del commissario Monet (Jean-Pierre Darroussin), che finirà per mostrarsi meno inflessibile del solito, Marcel riuscirà a imbarcare Idrissa su di un peschereccio diretto in Inghilterra.
Allo stesso tempo avrà inoltre modo di appurare che, contrariamente a quanto affermato da sua moglie, i miracoli fortunatamente possono avverarsi anche nel suo quartiere…

Con “Miracolo a Le Havre” Kaurismäki ci introduce nel difficile mondo di coloro che vivono ai margini della società.
Marcel Marx è uno di loro; dopo aver definitivamente abbandonato Parigi e le proprie ambizioni di scrittore, adesso si accontenta di “sopravvivere” facendo il lustrascarpe.
Sebbene debba confrontarsi quotidianamente con il cinismo delle persone che incontra lungo le strade di Le Havre, Marcel può a ogni modo fare affidamento sull’amore della moglie Arletty, che ogni sera lo attende a casa al suo rientro dal lavoro,  e sull’amicizia di alcuni degli abitanti del suo quartiere.
Quando crede che la sua vita sia oramai destinata a scorrere monotona sullo stesso binario, ecco che la scoperta della malattia della moglie e l’incontro con un giovanissimo clandestino africano gli fanno acquisire una nuova prospettiva sulla società  che lo circonda.
Le vicende si sviluppano infatti in modo tale che siamo portati a credere, o per lo meno a sperare, che in un mondo in cui le manifestazioni di odio ed egoismo sono all’ordine del giorno, la solidarietà tra gli esseri umani esista ancora e, soprattutto, che i miracoli possano realmente accadere.
Ambientata nella “fredda” città portuale di Le Havre, la vicenda riesce ad assumere  i connotati di una fiaba contemporanea, grazie anche ad alcune scenografie dal gusto rétro che contribuiscono a rendere la storia come sospesa nel tempo.
La colorata bottega del fruttivendolo del quartiere, le lunghe baguettes protagoniste dei pranzi e delle cene di Marcel, alcune vecchie canzoni che possiamo ascoltare in sottofondo, ci permettono inoltre di assaporare un’atmosfera tipicamente francese.
André Wilms e Kati Outinen, due interpreti particolarmente cari al regista finlandese, sono impeccabili nei loro ruoli, rispettivamente di Marcel e della sua adorata consorte; mentre nei panni del ragionevole commissario Monet ritroviamo il bravissimo Jean-Pierre Darroussin, volto noto dell’attuale cinema francese.
Nella parte dell’infame vicino di casa di Marcel, ricordiamo infine Jean-Pierre Léaud: il celeberrimo attore “feticcio” di François Truffaut.



Titolo: Miracolo a Le Havre ( Le Havre )
Regia: Aki Kaurismäki
Interpreti: André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel
Nazionalità: Francia, Finlandia, Germania
Anno: 2011


lunedì 24 dicembre 2012

“Una lunga domenica di passioni” di Jean-Pierre Jeunet: una tenera storia d’amore sullo sfondo degli orrori della grande guerra.


Dopo l’incredibile successo de “Il favoloso mondo di Amélie”, nel 2004 la fortunata coppia formata dal visionario regista francese Jean-Pierre Jeunet e l’espressiva Audrey Tautou si riunì felicemente per le riprese de “Una lunga domenica di passioni”: un vero e proprio kolossal di produzione franco-americana ambientato durante gli anni che  seguirono immediatamente il primo conflitto mondiale.
Nel gennaio del 1917, cinque soldati francesi, non sopportando più di continuare a combattere in trincea, decidono di automutilarsi proprio per sottrarsi ai loro doveri militari.
Condannati a morte da una corte marziale per aver commesso questo reato, i cinque uomini vengono scortati in un avamposto chiamato “Bingo Crépuscule” e abbandonati lì, tra le trincee francesi e quelle tedesche, al loro tragico destino.
Tra di loro vi è anche il giovanissimo Manech (Gaspard Ulliel), fidanzato di Mathilde (Audrey Tautou).
Due anni più tardi la ragazza, claudicante fin da quando era una bambina a seguito della poliomielite, non riesce ancora a rassegnarsi all’idea che Manech sia effettivamente deceduto, poiché se fosse morto lei lo saprebbe.
Sostenuta da questa sua fortissima convinzione, Mathilde inizia quindi la sua indagine personale.
In un altalenarsi di speranze e delusioni, e avvalendosi delle testimonianze di coloro che hanno incontrato Manech, la ragazza riuscirà finalmente a scoprire che cosa gli sia effettivamente successo quel terribile giorno a “Bingo Crépuscule”…



Tratto dall’omonimo romanzo di Sébastien Japrisot, “Una lunga domenica di passioni” ci presenta con estremo realismo tutto l’orrore della guerra.
Una perfetta ricostruzione delle trincee battute dalla pioggia e sommerse dal fango, un sapiente impiego degli effetti speciali, nonché la crudezza delle scene in cui il regista non ci risparmia la visione dei corpi dei soldati mutilati o, peggio ancora, straziati sul campo di battaglia, rendono lo spettatore particolarmente partecipe delle vicende narrate sullo schermo.
A smorzare la drammaticità degli eventi storici, contribuisce però la tenerezza della storia d’amore tra Mathilde e Manech, i quali, proprio a causa della guerra, hanno visto spezzarsi tragicamente il filo che li teneva legati al loro sogno fin dagli anni dell’infanzia.
Nonostante le avversità che l’hanno accompagnata fin dalla sua tenera età, il personaggio interpretato dalla Tautou affascina per la sua incredibile forza e tenacia; due qualità che la spingono senza sosta a scoprire che cosa sia effettivamente successo al suo amato, nonostante le persone che le stanno accanto la esortino in continuazione ad abbandonare le ricerche, onde evitare che lei si illuda inutilmente.
Fanno parte del cast di questo intenso kolossal a sfondo bellico, oltre alla Tautou e ad alcuni degli attori “feticcio” di Jeunet ( come Dominique Pinon e Rufus ), anche due premi Oscar di tutto rispetto: la bravissima Marion Cotillard ( nei panni di una vendicativa prostituta ) e la talentuosa Jodie Foster.
La suggestiva colonna sonora di Angelo Badalamenti riesce magistralmente a trasmettere allo spettatore non solo l’enorme angoscia di Mathilde, ma anche e soprattutto la sua speranza di riuscire a ritrovare ancora vivo il “suo” Manech.
Una menzione particolare spetta infine all’eccellente utilizzo degli effetti digitali, grazie ai quali è stato possibile ricreare la Parigi degli anni venti, nonché alla fotografia di Bruno Delbonnel, che  è riuscita ad esaltare l’incredibile bellezza dei paesaggi della Bretagna, con i suoi fari imponenti e le sue lunghissime coste frastagliate battute dal vento.



Titolo: Una lunga domenica di passioni ( Un long dimanche de fiançailles )
Regia: Jean-Pierre Jeunet
Interpreti: Audrey Tautou, Gaspard Ulliel, Dominique Pinon, Jodie Foster, Marion Cotillard
Nazionalità: Francia
Anno: 2004

domenica 16 dicembre 2012

“Cenerentola a Parigi” di Stanley Donen: la Ville Lumière vista da Hollywood.


Sofisticata commedia musicale diretta dal regista americano Stanley Donen, “Cenerentola a Parigi” ricevette quattro nominations ai premi Oscar del 1958, senza però riuscire ad aggiudicarsene neppure uno.
Accanto a una sempre deliziosa Audrey Hepburn, ritroviamo il mitico Fred Astaire che, sebbene non più giovanissimo, anche in questa pellicola dimostrò le sue incredibili doti di ballerino.
Maggie Prescott (Kay Thompson), l’abile e autoritaria direttrice di “Quality”, una rivista di moda molto seguita dalle donne americane, è alla ricerca di un volto nuovo da lanciare sul suo giornale e, su suggerimento del fotografo Dick Avery (Fred Astaire), crede di averlo individuato in Jo Stockton (Audrey Hepburn), la timida e graziosa commessa di un negozio di libri, appassionata di filosofia.
Nonostante la sua totale avversione al mondo della moda, la ragazza accetta la proposta di Maggie e Dick di diventare una modella e di seguirli a Parigi per presentare la nuova collezione di uno stilista francese, allettata dall’idea che lì avrà la possibilità di incontrare il famoso filosofo Emile Flostre, di cui è una fervente ammiratrice.
Giunta nella capitale francese, Jo rimane immediatamente affascinata dalla magia dei servizi fotografici di cui è protagonista e, soprattutto, dalle particolari attenzioni mostratele da Dick.
La sera in cui viene presentata la collezione, però, invece di sfilare in passerella, Jo si reca a casa di  Flostre.
Nel tentativo di convincerla ad andare alla sfilata, Maggie e Dick la raggiungono, senza però riuscire nel loro intento; e dopo aver litigato con lei, l’uomo decide improvvisamente di tornare a New York.
Subito dopo essere rimasta da sola con il filosofo, Jo si rende conto però che in realtà Flostre è solamente interessato a lei; e così, dopo averlo colpito sulla testa con una statuetta, la ragazza corre alla sfilata profondamente pentita di aver respinto Dick; ma oramai, forse, è troppo tardi per rimediare…

Prendendo garbatamente in giro sia le riviste di moda che il mondo degli intellettuali, questa pellicola è un elegante omaggio del regista alla Ville Lumière: location ideale per ambientare una storia d’amore che, sebbene a tratti appaia forse fin troppo stucchevole, riesce comunque a farci respirare tutta l’atmosfera di una coloratissima Parigi della fine degli anni cinquanta.
Le suggestive musiche di Ira e George Gershwin, la sofisticata fotografia ( impeccabile sotto la supervisione di Richard Avedon, al quale è ispirato il personaggio interpretato da Fred Astaire ), gli eleganti abiti indossati da Audrey Hepburn firmati Hubert de Givenchy e, ovviamente, l’indiscutibile bravura degli interpreti principali, hanno contribuito a fare di “Cenerentola a Parigi” l’ennesima commedia musicale di successo di Stanley Donen, dopo un “Un giorno a New York” e “Sette spose per sette fratelli” ( solo per citarne alcune ).
Un veterano del calibro di Fred Astaire affianca una splendida Audrey Hepburn decisamente a proprio agio nei numeri musicali; la vediamo infatti ballare con disinvoltura e ascoltiamo cantare con la propria voce, differentemente da quanto accadde alcuni anni dopo in “My Fair Lady”.



Titolo: Cenerentola a Parigi ( Funny face )
Regia: Stanely Donen
Interpreti: Audrey Hepburn, Fred Astaire, Kay Thompson
Nazionalità: USA
Anno: 1957


domenica 9 dicembre 2012

“Bande à part” di Jean-Luc Godard: un insolito triangolo amoroso per una delle pellicole più rappresentative della Nouvelle Vague francese.


Tratto dal romanzo “Fool’s Gold” della scrittrice americana Dolores Hitchens, “Band à part” è il settimo lungometraggio del regista francese Jean-Luc Godard.
Considerata una delle pietre miliari della Nouvelle Vague, questa pellicola è stata più volte citata nel corso degli anni da numerosi registi, tra cui Quentin Tarantino in “Pulp Fiction” e Bernardo Bertolucci in “The dreamers”.
E’ la storia di una ragazza e due ragazzi che si sviluppa in un insolito triangolo amoroso.
Odile (Anna Karina) è una giovane e ingenua studentessa che non ha ancora conosciuto il vero amore.
Arthur (Claude Brasseur) e Franz (Samy Frey), invece, sono due spiantati legati da una profonda amicizia, sebbene siano caratterialmente diversi e all’apparenza non abbiamo nulla in comune, se non una grande passione per i film americani.
Nel tentativo di dare una svolta decisiva alle loro vite, i due amici progettano una rapina nell’abitazione della zia di Odile, situata nella periferia di Parigi.
Poiché è lì che vive la ragazza, Arthur e Franz decidono di coinvolgerla nella loro impresa, affinché li aiuti a penetrare nella villa; e lei, che nel frattempo si è innamorata di Arthur, suo malgrado accetta.
Purtroppo, però, le cose non andranno come previsto…



In “Bande à part” ritroviamo l’incantevole Anna Karina, all’epoca musa ispiratrice nonché compagna di Jean-Luc Godard, accanto a due grandi interpreti del calibro di Claude Brasseur e Samy Frey.
La storia si sviluppa attorno alla figura di Odile, e più precisamente alle relazioni che vengono a crearsi tra lei e gli altri due personaggi maschili, ciascuno dei quali mostra nei confronti della ragazza un diverso interesse.
Mentre le riprese sono state effettuate senza seguire una tecnica ben precisa, conformemente ai dettami della Nouvelle Vague, non si può affermare altrettanto per quanto riguarda la modalità con cui viene narrata la vicenda, che poggia su di una sceneggiatura ben strutturata, realizzata dallo stesso Godard partendo da un soggetto della Hitchens.
Il regista interviene come voce fuori campo ogniqualvolta desidera spiegare alcuni punti particolarmente salienti della storia, o nel momento in cui ritiene opportuno esternare lo stato d’animo dei singoli personaggi che sono coinvolti nella vicenda, e che spesso vediamo scorrazzare a bordo di una vecchia Simca lungo le strade semideserte di una grigia Parigi dei primi anni sessanta.
“Bande à part” è indubbiamente uno dei film più rappresentativi della Nouvelle Vague francese, che viene spesso ricordato per due scene in particolare.
Quella dell’irresistibile balletto di Odile, Arthur e Franz all’interno di un café; e quella in cui il bizzarro terzetto decide di percorrere, correndo a perdifiato, l’intero Louvre.
Molti anni dopo, e più precisamente nel 2003, Bernardo Bertolucci decise di riprendere quest’ultima scena nel suo “The dreamers”, ambientato ai tempi delle contestazioni studentesche del 1968.
I tre ragazzi, interpretati rispettivamente da Eva Green, Michael Pitt e Louis Garrel, decidono infatti di ricreare la scena della corsa vista alcuni anni prima proprio in “Bande à part” di Jean-Luc Godard.




Titolo: Bande à part ( Bande à part )
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti: Anna Karina, Samy Frey, Claude Brasseur
Nazionalità: Francia
Anno: 1964


domenica 2 dicembre 2012

“I quattrocento colpi” di François Truffaut: il racconto autobiografico di un’infanzia turbolenta.


Premiato per la miglior regia al Festival di Cannes del 1959, “I quattrocento colpi” è il primo lungometraggio, nonché il primo capolavoro, del grande maestro François Truffaut.
E’ anche la pellicola nella quale facciamo la conoscenza di Antoine Doinel: l’indimenticabile personaggio interpretato dal bravissimo Jean-Pierre Léaud, attore feticcio di Truffaut e della Nouvelle Vague francese.
Parigi, fine anni cinquanta. Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) è un giovane adolescente che vive insieme alla madre Gilberte (Claire Maurier) e al patrigno Julien (Albert Rémy).
Incompreso dalla propria famiglia, decisamente poco affettuosa nei suoi confronti, Antoine non ha voglia di studiare e trascorre le sue giornate organizzando scherzi ai compagni, o saltando addirittura le lezioni per recarsi al cinema o al Luna Park insieme al suo amico René.
A causa di questa sua condotta indisciplinata, viene spesso punito sia dagli insegnanti che dai suoi genitori.
Un giorno, dopo la sua ennesima bravata, Antoine decide di scappare di casa per andare a vivere da  René, all’insaputa dei genitori di quest’ultimo.
Al fine di racimolare un po’ di soldi per poter organizzare una gita al mare ( dove non è ancora mai stato ) Antoine ruba con l’aiuto di René una macchina da scrivere nell’ufficio del patrigno, con l’intento di rivenderla successivamente.
Non avendo però trovato nessuno disposto ad acquistarla, nel momento in cui Antoine decide di restituirla viene scoperto dal custode dello stabile, e denunciato dal patrigno.
In seguito a quest’ultimo episodio, i suoi genitori acconsentono a farlo rinchiudere in un riformatorio lontano da Parigi  ( e vicino al mare ), nella speranza che questo serva a renderlo più disciplinato.
Antoine sperimenta immediatamente sulla propria pelle la durezza delle condizioni di quel luogo, e una mattina, durante una partita di pallone, approfittando di un attimo di disattenzione dei custodi, decide di fuggire.
La sua lunga corsa lo porterà direttamente, e finalmente, al mare.


Considerato uno dei film-manifesto della Nouvelle Vague, con “I quattrocento colpi” Truffaut passò dalla critica cinematografica dei “Cahiers du cinema” alla regia.
Il titolo della pellicola, apparentemente senza alcun significato, è in realtà la traduzione letterale di quello originale che fa riferimento all’espressione francese “faire les quatre cents coups” ( in italiano: “fare il diavolo a quattro” ).
E’ essenzialmente un inno alla libertà dei bambini e, poiché il regista ebbe un’infanzia alquanto turbolenta come quella di Antoine Doinel, può giustamente considerarsi un film ampiamente autobiografico.
In effetti, anche Truffaut trascorse la sua infanzia, con la madre e il patrigno, in un quartiere di Parigi situato nei pressi della Tour Eiffel e, soprattutto, anche lui venne rinchiuso in un riformatorio.
Dopo numerosi provini, decise di assegnare il ruolo di Antoine Doinel all’allora giovanissimo Jean-Pierre Léaud proprio per la sua aria tenera ma al tempo stesso beffarda e scanzonata.
Negli anni successivi quello stesso personaggio divenne poi un vero e proprio alter ego cinematografico del regista, rappresentandolo sullo schermo in diversi momenti della sua vita.
Infatti, dopo averne interpretato la fase adolescenziale ne “I quattrocento colpi”, Jean-Pierre Léaud tornò a vestire i panni di Antoine Doinel nel 1962 inAntoine e Colette” ( uno degli episodi del film “L’amore a vent’anni” ); nel 1968 inBaci rubati”; nel 1970 inNon drammatizziamo… è solo una questione di corna!” e nel 1979 inL’amore fugge”.
Nonostante la sua lunga e lodevole carriera, di Jean-Pierre Léaud viene a ogni modo ricordata dagli amanti di Truffaut, e non solo, la sua espressione smarrita nell’ultima inquadratura de “I quattrocento colpi”, dalla quale si riesce a percepire tutta l’amarezza del protagonista per non aver avuto anche lui la possibilità di vivere un’infanzia spensierata.



Titolo: I quattrocento colpi ( Les 400 coups )
Regia: François Truffaut
Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier, Patrick Auffay, Georges Flamant
Nazionalità: Francia 
Anno: 1959

domenica 25 novembre 2012

“Tre colori: Film blu” di Krzysztof Kieslowsky: un complesso esame psicologico della libertà individuale.


Leone d’oro per miglior film alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia del 1993 ( in ex aequo con “America oggi” di Robert Altman ), “Film blu” di Krzysztof Kieslowsky è la prima delle tre pellicole dedicate dal regista polacco ai colori della bandiera francese e, conseguentemente, ai principi divulgati dalla rivoluzione del 1789.
Protagonista assoluta di questa sofferta storia di rinascita è una magnifica Juliette Binoche che, grazie alla sua intensa interpretazione, quello stesso anno a Venezia si aggiudicò la “Coppa Volpi” per la migliore attrice.
Julie (Juliette Binoche) sta viaggiando con il marito Patrice (Hugues Quester), un noto compositore, e la figlia di sette anni, quando la loro auto finisce fuori strada, schiantandosi contro un albero.
Al risveglio in ospedale apprende dai medici che entrambi i suoi congiunti sono deceduti.
L’immenso dolore per la perdita dei suoi cari la spinge immediatamente al suicidio; tenta infatti di ingerire alcuni medicinali che ha trovato in infermeria  senza però riuscire nel proprio intento.
Successivamente, nell’errata convinzione di poter soffocare il proprio dolore liberandosi di tutti i ricordi che la legano al passato, Julie decide di mettere in vendita la villa dove fino a poco tempo prima abitava con la sua famiglia, e si trasferisce a Parigi in un piccolo appartamento.
Provvede inoltre a distruggere la partitura musicale a cui Patrice stava lavorando prima della sua morte: un concerto per la celebrazione dell’Unione Europea.
Per il solo fatto di esistere Julie è comunque costretta a confrontarsi quotidianamente con il proprio passato e, soprattutto, con il proprio dolore.
Riesce a ritrovare il senso della vita solamente dopo aver appreso, per caso, che il marito aveva un’amante; e poiché quest’ultima è in attesa di un figlio da lui, Julie decide di lasciarle la villa di famiglia.
Infine, dopo aver scoperto che Olivier (Benoît Régent) l’ultimo collaboratore di Patrice, da sempre innamorato di lei, sta lavorando alla partitura incompiuta del marito, di cui aveva conservato una copia, Julie  lo aiuta a completarla e, soprattutto, ne accetta finalmente l’amore.



E’ un complesso esame psicologico della libertà individuale quello che il regista polacco ci presenta in questa pellicola dedicata al “blu”, uno dei tre colori della bandiera francese.
Attraverso un tortuoso, nonché sofferto, percorso interiore, Julie si trova costretta, suo malgrado, ad elaborare il lutto per la perdita del marito e della loro unica figlia.
Nel tentativo di emulare la madre, la quale, avendo perso la memoria, vive esclusivamente nel presente senza alcuna possibilità di soffrire ripensando al passato, Julie crede di poter evitare le dolorose conseguenze della tragedia che l’ha inaspettatamente travolta, allontanando da sé tutto ciò che in un modo o nell’altro possa riportarle alla mente la propria famiglia.
Il suo è un desiderio di affrancarsi dall’amore che un tempo la legava al marito e del quale, per non soffrire, non vuole sentirsi più prigioniera; è solamente nel momento in cui viene a sapere che lui  aveva una relazione extra-coniugale che la donna acquisisce una nuova consapevolezza di sé e del proprio futuro.
Il suo atto di generosità nei confronti dell’amante di Patrice segna infatti una svolta determinante nella vita di Julie, che la porterà a sentirsi finalmente libera e a riprendere in mano le redini della propria esistenza.
Durante la visione della pellicola sono molteplici i riferimenti al colore blu.
Blu è la carta di una caramella che la figlia di Julie fa sventolare fuori dal finestrino dell’auto sulla quale sta viaggiando insieme ai suoi genitori; blu è l’acqua della piscina dove la donna si reca spesso a nuotare; blu infine è la luce che avvolge e illumina il personaggio interpretato dalla Binoche in determinati momenti del film, sottolineati dal suggestivo tema musicale composto da Zbniew Preisner, le cui parole sono tratte dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi, e asseriscono l’importanza dell’amore su tutto il resto.




Titolo: Tre colori: Film blu ( Trois couleurs: Bleu )
Regia: Krzysztof Kieslowsky
Interpreti: Juliette Binoche, Benoît Régent, Emmanuelle Riva
Nazionalità: Francia / Polonia
Anno: 1993

sabato 17 novembre 2012

“La calda amante” di François Truffaut: un dramma borghese che lentamente si tinge di noir.


Sebbene oggi sia ritenuta dai critici cinematografici una delle pellicole più intense di François Truffaut, “La calda amante” si rivelò in realtà un vero e proprio fiasco al momento della sua presentazione al Festival di Cannes del 1964.
Tra gli interpretati principali spicca l’indimenticabile Françoise Dorléac, la bellissima ma altrettanto sfortunata sorella di Catherine Deneuve, morta prematuramente in un incidente stradale nel 1967.
Pierre Lachenay (Jean Dasailly) è un scrittore ed editore di successo, che vive a Parigi insieme alla moglie Franca (Nelly Benedetti) e alla figlia Sabine.
Durante un viaggio in aereo a Lisbona, dove è atteso per una conferenza, si invaghisce della giovane Nicole (Françoise Dorléac), una delle hostess di quel volo, la quale, da parte sua, si dimostra tutt’altro che insensibile al fascino del rinomato scrittore.
Dopo aver trascorso la notte insieme, i due decidono di continuare a frequentarsi, nonostante le difficoltà che devono affrontare per potersi incontrare. Nicole, infatti, non può ospitarlo nella camera dove vive in affitto; mentre Pierre, legato ancora alla propria famiglia, vive clandestinamente la sua relazione con la giovane hostess.
Dovendosi  recare a Reims per la presentazione di un film, Pierre decide di portare Nicole con sé; dopo una serie di spiacevoli imprevisti, che purtroppo li tengono separati, i due riescono finalmente a  rifugiarsi in un piccolo albergo di campagna.
Rientrati a Parigi, mentre Nicole esprime a Pierre la propria intenzione di interrompere la loro relazione, quest’ultimo deve invece far fronte alle domande di Franca, che nel frattempo ha iniziato a sospettare dell’infedeltà del marito; a poco a poco il loro rapporto degenererà fino alle estreme e tragiche conseguenze…


Dopo l’eclatante successo di “Jules et Jim”, pubblico e critica si aspettavano da Truffaut un’altra pellicola che in qualche modo ne ricalcasse le tematiche; il regista invece, sorprendendo e soprattutto deludendo tutti quanti, si presentò con “La calda amante”: un film in cui la narrazione dell’amore perde i toni spensierati tipici della giovinezza per caricarsi di quelli cupi e decisamente più complessi di una storia di adulterio.
La pellicola tratta infatti di un sofferto triangolo amoroso destinato a finire in tragedia e, nonostante sia stata girata quasi mezzo secolo fa, oggi ci appare tutt’altro che datata per la raffinata narrazione  dei profili psicologici dei soggetti coinvolti nella vicenda.
In una sceneggiatura che non brilla per originalità per quasi l’intera durata della pellicola, il modo in cui viene sviluppato il personaggio della moglie riesce a spiazzarci e, contemporaneamente, a far virare inaspettatamente il genere del film dal melodramma al noir.
Sebbene Franca ci venga presentata come l’elegante e premurosa moglie di un imprenditore di successo, rivestendo una funzione quasi decorativa, è però nel momento in cui prende coscienza dell’infedeltà del marito che assume immediatamente un diverso spessore, al punto che la vediamo  meditare lentamente e attuare con freddezza l’omicidio di Pierre.
Girato in poco più di due mesi tra Parigi, Orly, Reims e Lisbona, “La calda amante” uscì in Italia in una versione tagliata di circa venti minuti rispetto a quella francese e, soprattutto, con un titolo che non aveva nulla a che vedere con il messaggio che desiderava lanciare quello originale, la cui traduzione recita “La pelle morbida”.



Titolo: La calda amante ( La peau douce )
Regia: François Truffaut
Interpreti : Jean Desailly, Françoise Dorléac, Nelly Benedetti, Daniel Ceccaldi
Nazionalità: Francia
Anno : 1964


domenica 11 novembre 2012

“Lezioni di felicità” di Eric-Emmanuel Schmitt: come imparare a essere ottimisti e a sorridere alla vita.



Scritto e diretto dal drammaturgo francese Eric-Emmanuel Schmitt, “Lezioni di felicità” è un vero e proprio inno all’ottimismo e alla gioia di vivere.
Grazie alle magistrali interpretazioni di Catherine Frot e Albert Dupontel, nonché alla stupenda colonna sonora del maestro Nicola Piovani, questa pellicola ci permette di rifugiarci, sebbene momentaneamente, in un mondo in cui sembra che tutte le storie abbiano sempre un lieto fine
Odette Toulemonde (Catherine Frot) è una quarantenne dall’aspetto piacente, che dopo la morte del marito non si è più risposata.
Vive in un alloggio popolare a Charleroi, insieme ai due figli, Rudy (Fabrice Murgia) e Sue Helen (Nina Drecq), e al fidanzato di quest’ultima.
Lavora nel reparto profumeria di un grande magazzino e coltiva una grandissima passione per i romanzi dello scrittore Balthazar Balsan (Albert Dupontel), dai quali deriva il suo sconfinato ottimismo, sebbene la sua vita non sia stata sempre facile.
Balthazar Balsan invece, sebbene possa dire di avere tutto, non è felice.
Dopo aver ricevuto una pesante stroncatura al suo ultimo libro da parte di Olaf Pims (Jacques Weber), un famoso critico letterario parigino, ed aver scoperto che quest’ultimo ha una relazione con sua moglie, lo scrittore tenta di suicidarsi senza però riuscire nel proprio intento.
Una commovente lettera scrittagli da Odette, nella quale gli esprime tutta la sua ammirazione, lo spingerà a mettersi subito sulle tracce della donna; il loro incontro segnerà una svolta inaspettata nelle vite di entrambi…



Prendendo spunto da un episodio realmente accadutogli, Eric-Emmanuel Schmitt ha realizzato una pellicola, forse eccessivamente buonista, la cui visione ha comunque il pregio di riuscire a rincuorarci, soprattutto durante quei giorni in cui ci sembra che tutto vada storto.
E’ ovviamente una storia a sfondo favolistico in cui assistiamo all’inaspettato incontro di due mondi diametralmente opposti, e dove la semplicità e il buonumore che contraddistinguono la giornate di Odette riescono ad annientare lentamente la negatività che assilla l’esistenza di Balthazar, facendogli al tempo stesso acquisire una nuova prospettiva della vita e salvandolo così da quell’autodistruzione alla quale sembrava inevitabilmente destinato.
La leggerezza che pervade “Lezioni di felicità” è sottolineata dal sapiente inserimento di divertenti siparietti musicali, durante i quali Catherine Frot e i suoi comprimari danzano allegramente  sulle note di alcune delle più celebri canzoni dell’indimenticabile Josephine Baker; oltre a ciò, durante la visione del film ci capita spesso di veder volare Odette nei cieli di Charleroi, come se fosse una moderna Mary Poppins, ogniqualvolta si sente particolarmente felice.
Una menzione particolare spetta inoltre alla colonna sonora composta dal pluripremiato Nicola Piovani, la cui raffinata e malinconica melodia riesce a valorizzare ulteriormente le riuscite interpretazioni di un cast ben affiatato, in cui ritroviamo attori francesi e belgi.



Titolo: Lezioni di felicità ( Odette Toulemonde )
Regia: Eric-Emmanuel Schmitt
Interpreti : Catherine Frot, Albert Dupontel, Jacques Weber, Fabrice Murgia, Nina Drecq
Nazionalità: Francia / Belgio
Anno : 2006


lunedì 5 novembre 2012

“Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard: Parigi, gli anni 60 e… la Nouvelle Vague.


Fino all’ultimo respiro” è il primo lungometraggio di Jean-Luc Godard; tratto da un soggetto di François Truffaut, e realizzato sotto la supervisione tecnica di Claude Chabrol, è considerato il film-manifesto della Nouvelle Vague francese.
Al fianco di un superbo Jean-Paul Belmondo, troviamo una giovanissima Jean Seberg: la graziosa attrice americana che questa pellicola consacrò icona di stile degli anni sessanta.
Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un giovane balordo che vive di espedienti, barcamenandosi tra furti e truffe.
Dopo aver rubato l’ennesima auto a Marsiglia, prima di fuggire in Italia si reca a Parigi per recuperare da un amico del denaro che gli spetta.
Inseguito da due agenti per eccesso di velocità, ne uccide uno con una pistola che ha trovato nel cruscotto dell’auto.
Arrivato a Parigi, dopo aver ritrovato Patricia Franchini (Jean Seberg), una studentessa americana della quale si era precedentemente innamorato, cerca di convincerla ad andare con lui in Italia.
La ragazza però, sebbene non sembri disdegnare le attenzioni di Michel, non ha nessuna intenzione di seguirlo, non approvando il suo stile di vita dissoluto.
Poco dopo Michel apprende dai giornali di essere ricercato dalla polizia, che nel frattempo ha interrogato Patricia, essendo stata vista insieme a lui.
L’americana, nel tentativo di farlo fuggire prima che venga arrestato, decide di denunciarlo rivelando il luogo in cui Michel si è nascosto.
Raggiunto dalla polizia, l’uomo tenta di fuggire ma inutilmente; muore infatti sotto lo sguardo contrito di Patricia, dopo essere stato colpito da un agente.



Girato tra Parigi e Marsiglia in poco meno di un mese e con un budget alquanto limitato, con “Fino all’ultimo respiro”  Jean-Luc Godard reinventò il modo di fare cinema, mettendo in pratica quella volontà di opporsi alle rigide regole che avevano caratterizzato fino ad allora l’industria cinematografica francese, secondo quanto rivendicato dallo stesso Godard e dagli altri registi fondatori del movimento della Nouvelle Vague.
In nome di una libertà di espressione che abbracciava anche la realizzazione tecnica di un film, durante le riprese scomparve infatti l’uso di cavalletti e binari; basti ricordare che per girare la celebre scena in cui Michel e Patricia passeggiano l’una accanto all’altro sugli Champs-Elysées, il regista si avvalse di una macchina da presa installata su di una bicicletta.
Caratterizzato da una sceneggiatura alquanto esile, “Fino all’ultimo respiro” è un omaggio ai vecchi polizieschi americani, di cui Godard era un grande appassionato.
Il personaggio di Michel, interpretato magnificamente da un giovane Jean-Paul Belmondo, sebbene viva costantemente sopra le righe, nasconde in realtà un lato estremamente tenero come ci è dimostrato dal suo affetto per Patricia; affetto che gli impedisce perfino di mettersi in salvo, e quindi di allontanarsi da lei, nel momento in cui la ragazza gli rivela di averlo denunciato alla polizia.
Fa da sfondo a questa sfortunata storia d’amore, una Parigi che affascina nonostante l’immagine estremamente semplice che ci viene restituita da una fotografia in bianco e nero ridotta all’essenziale, e che è indubbiamente rappresentativa di un’importante fase di transizione nella storia politica e culturale della Francia.


  
Titolo: Fino all’ultimo respiro ( A bout de souffle )
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti : Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Jean-Pierre Melville
Nazionalità: Francia
Anno : 1960


mercoledì 31 ottobre 2012

“Emotivi anonimi” di Jean-Pierre Améris: il fortunato incontro di due timide anime gemelle.


Diretta nel 2010 dal regista francese Jean-Pierre Améris, “Emotivi anonimi” è una piacevolissima commedia che, sebbene poggi su di una sceneggiatura estremamente semplice, grazie alle irresistibili interpretazioni di Isabelle Carré e Benoît Poelvoorde riesce comunque a proiettarci in un’atmosfera quasi favolistica, senza una precisa connotazione temporale.
Angélique (Isabelle Carré) è una giovane donna che, a causa della sua eccessiva emotività, frequenta il gruppo di aiuto degli “Emotivi anonimi”.
Maestra cioccolataia di professione, dopo aver decretato con la propria arte la fortuna di una cioccolateria, pur rimanendo nell’anonimato, è adesso alla ricerca di un nuovo impiego a seguito del decesso del suo datore di lavoro.
A questo proposito si rivolge alla “Fabrique de Chocolat”, una piccola impresa sull’orlo del fallimento, diretta dal signor Jean-René Van Den Hugde (Benoît Poelvoorde), un uomo all’apparenza burbero, ma in realtà letteralmente terrorizzato dal rapporto con le donne.
Dopo un breve colloquio Angélique viene immediatamente assunta ma, a causa di un equivoco, invece di essere adibita alla preparazione del cioccolato, le viene assegnato il ruolo di responsabile delle vendite.
Sebbene la donna si ritenga assolutamente inadeguata per quella mansione, si impegna a vincere la sua patologica timidezza per cercare di risollevare le sorti dell’azienda.
Nel frattempo Jean-René, su suggerimento dello psichiatra presso il quale è in cura, invita Angélique a cena nel tentativo di riuscire a superare la sua paura nei confronti dell’altro sesso.
Tra i due scocca immediatamente la scintilla, ma entrambi non riescono a esprimere liberamente i propri sentimenti; la loro profonda mancanza di fiducia in se stessi verrà a ogni modo ben presto sopraffatta dalla forza del loro amore… 


In “Emotivi anonimi” ci viene presentata la storia di due anime gemelle, abituate a combattere quotidianamente contro la loro patologica insicurezza; ma non è solamente la paura di rapportarsi con il mondo esterno ad accomunare Angélique e Jean-René.
In effetti, entrambi hanno fatto della passione per il cioccolato la loro professione; ed è proprio nell’ambito di un contesto lavorativo che le loro strade, così emotivamente impervie, si incontrano. 
Sarà un amore pressoché a prima vista ma, come del resto è facilmente prevedibile, sarà altresì alquanto problematico per loro due riuscire a dichiararsi apertamente.
“Emotivi anonimi” non è certamente il primo film in cui viene data prova di come il cioccolato riesca a unire gli animi umani, creando contemporaneamente intorno a sé qualcosa di estremamente magico.
Isabelle Carré, nei panni della trasognata e romantica Angélique, e Benoît Poelvoorde, in quelli del superimpacciato Jean-René, con la loro delicata recitazione riescono a dare vita a due personaggi credibili nonostante il contesto quasi favolistico in cui sono calati.
Anche se la storia è ambientata ai nostri giorni, fin dalle prime note di “J’ai confience en moi”, il brano interpretato dalla stessa Carré che accompagna i titoli di testa, abbiamo immediatamente l’impressione di essere proiettati in un’epoca appartenente al passato, sebbene non ben definita temporalmente; questo grazie anche a un sapiente utilizzo delle luci che riescono a conferire alla pellicola un’atmosfera vagamente retrò.



Titolo: Emotivi anonimi ( Les émotifs anonymes ) 
Regia: Jean-Pierre Améris
Interpreti : Isabelle Carré, Benoît Poelvoorde, Lorella Cravotta, Lise Lamétrie
Nazionalità: Francia / Belgio
Anno : 2010


mercoledì 24 ottobre 2012

“I diabolici” di Henri-Georges Clouzot: un thriller carico di suspense ambientato nella misteriosa periferia parigina degli anni cinquanta.


Tratto dal romanzo “Celle qui n’était plus”, scritto a quattro mani da Pierre Boileau e Thomas Narcejac, “I diabolici” è considerato uno dei primi, e soprattutto validi, thriller  prodotti in Francia. Diretta nel 1955 da Henri-Georges Clouzot (definito dalla critica cinematografica  “l’Hitchcock francese” ), questa pellicola consacrò definitivamente la bravura e il talento della carismatica Simone Signoret.
A Saint-Cloud, nella periferia parigina, si trova il collegio maschile Delassalle, diretto dal tirannico Michel Delassalle (Paul Meurisse).
Fanno parte del corpo insegnante anche sua moglie Christina (Véra Clouzot), donna remissiva, estremamente religiosa e, soprattutto, gravemente cardiopatica, e la burbera Nicole (Simone  Signoret), con la quale Michel ha una relazione extraconiugale.
Moglie e amante, esasperate dai continui maltrattamenti subiti dal dispotico direttore, decidono di allearsi allo scopo di ucciderlo.
L’occasione per farlo si presenta durante un lungo week-end in cui le lezioni vengono momentaneamente sospese, e Nicole, accompagnata da Christina, ne approfitta per tornare a Niort, la sua città natale.
Raggiunte da Michel la sera stessa, le due donne riescono a mettere in atto il loro diabolico piano. Dopo averlo fatto ubriacare, lo annegano in una vasca da bagno; successivamente ne riportano il cadavere a Saint-Cloud per gettarlo nella piscina della scuola, in attesa che venga poi scoperto.
Subito dopo il loro rientro al collegio inizierà però a verificarsi una serie di fatti inspiegabili, a seguito dei quali Christina e Nicole cominceranno a temere che Michel non sia effettivamente morto…


Al momento della sua uscita nelle sale francesi, “I diabolici” riscosse un tale successo, sia di critica che di pubblico, che fu immediatamente paragonato alle opere di Alfred Hitchcock.
Caratterizzata dalla pressoché totale assenza di una colonna sonora, questa pellicola si contraddistingue per il ritmo incredibilmente serrato con il quale si dipana la storia, nonché  per la continua e crescente tensione che si sviluppa grazie anche alle  encomiabili interpretazioni delle due attrici.
Lo spettatore viene talmente coinvolto nella vicenda, che ha addirittura la sensazione di trovarsi al fianco di Christine e Nicole durante i numerosi colpi di scena che il film ci riserva.
Il bianco e nero della pellicola, oltre ad accentuare gli aspetti estremamente cupi della vicenda, le conferisce un fascino particolare, restituendoci l’immagine di una periferia francese degli anni cinquanta dall’atmosfera solo in apparenza tranquilla.  
Preoccupandosi di garantire il massimo effetto sorpresa a tutti coloro che si recavano a vedere “I diabolici”, Henri-Georges Clouzot impose ai gestori dei cinema di tenere chiuse le porte delle sale durante la proiezione; per lo stesso motivo, al termine del film appariva sullo schermo un messaggio con il quale il regista esortava gli spettatori a non rivelare a parenti e amici nulla di ciò che avevano appena visto.
Nel 1996 “I diabolici” divenne poi oggetto di un fedele remake diretto dal regista canadese Jeremiah S. Chechik dal titolo “Diabolique”, in cui i ruoli di Nicole e Christina furono assegnati rispettivamente a Sharon Stone e Isabelle Adjani, mentre il personaggio di Michel Delassalle venne interpretato dal poliedrico Chazz Palminteri.





Titolo: I diabolici ( Les diaboliques )
Regia: Henri-Georges Clouzot
Interpreti : Simone Signoret, Paul Meurisse, Vera Clouzot, Charles Vanel
Nazionalità: Francia
Anno : 1955


mercoledì 17 ottobre 2012

“Play Time” di Jacques Tati: Monsieur Hulot nel caos della civiltà moderna.


Dopo tre anni di lunga e sofferta lavorazione, nel 1967 uscì finalmente nelle sale francesi “Play  Time”: il quarto lungometraggio di Jacques Tati. Questa pellicola, sebbene considerata un capolavoro per l’attenzione quasi maniacale prestata ai singoli dettagli, si rivelò un vero e proprio fiasco al botteghino, determinando così la rovina economica del geniale cineasta francese a causa degli elevatissimi costi di produzione dallo stesso sostenuti per la sua realizzazione.
In una Parigi ultramoderna, popolata da altissimi palazzi in vetro e acciaio, si intrecciano le vite  di una serie di alquanto bizzarri personaggi.
Monsieur Hulot (Jacques Tati) si reca in uno di questi edifici per un importante appuntamento e invece, perdendosi in un complicato labirinto di uffici e corridoi, si ritrova a visitare insieme a un gruppo di turiste americane una fiera campionaria, all’interno della quale vengono presentati dei singolari oggetti dal design moderno.
Successivamente Hulot incontra un suo ex-compagno d’armi che lo invita nel suo appartamento-vetrina, da lui acquistato di recente.
Al calar della notte, poi, si ritroverà insieme agli altri personaggi da lui incrociati nel corso di quella insolita giornata all’inaugurazione di un night-club, durante la quale il locale verrà invece completamente distrutto a seguito del verificarsi di una serie di comici incidenti.



Dopo “Le vacanze di Monsieur Hulot” e “Mio zio”, Jacques Tati portò per la terza volta sullo schermo le peripezie dello strampalato signore dal portamento dinoccolato.
Caratterizzato dall’assenza di una vera e propria trama, e girato in 70mm, “Play Time” sviluppa la sua comicità soprattutto a livello visivo e sonoro, poiché i dialoghi tra i personaggi di cui riusciamo a fare una superficiale conoscenza durante la visione della pellicola sono ridotti praticamente al minimo.
Ancora prima che per la sua genialità e originalità, questo lungometraggio viene ricordato per l’enorme set fatto costruire appositamente da Tati nella periferia di Parigi, nei pressi dell’aeroporto di Orly, che per questo motivo venne soprannominato “Tativille”.
Il regista francese ha immaginato una metropoli futurista dove altissimi e asettici palazzi, che potremmo ritrovare in qualunque altra città del mondo, hanno preso il posto dei ben più armoniosi edifici storici. In effetti, ci rendiamo conto che l’azione si sta svolgendo a Parigi solo nel momento in cui riusciamo a intravedere, riflessi nelle vetrate delle nuovissime costruzioni, la Tour Eiffel, l’Arco di Trionfo e la Basilica di Montmartre.
“Play Time” si presenta come una satira sulla smania del moderno che contraddistingue il genere umano e, allo stesso tempo, tenta di mettere in guardia dai pericoli derivanti dall’uso delle nuove tecnologie che, come vediamo durante la serata inaugurale del Royal Garden, anziché agevolare la nostra quotidianità, rischiano di complicarla inutilmente, ostacolando così i normali rapporti umani.
Così facendo Tati riprende un tema da lui già trattato circa dieci anni prima in “Mio zio”, uno dei suoi indimenticabili capolavori, in cui il calore dei rapporti umani vissuti in un quartiere popolare nella Francia della fine degli anni cinquanta viene raffrontato, ovviamente con la dovuta dose di ironia, con l’eleganza dell’atmosfera che si respira all’interno di una villa ultramoderna, dotata di tutte le ultimissime invenzioni tecnologiche.   




Titolo: Play Time ( Play Time )
Regia: Jacques Tati
Interpreti : Jacques Tati, Barbara Dennek, Rita Maiden
Nazionalità: Francia
Anno : 1967